
Dall’Iran all’Ucraina, dal Kashmir alla Striscia di Gaza: la geopolitica si gioca su una scacchiera dove i pezzi sono vite umane e i giocatori, spesso, non sono così liberi come sembrano.
Gli scacchi nascono oltre mille anni fa proprio nella regione indo-persiana, dove si trova l’attuale Iran. Il nome deriva infatti dal persiano shah che significa “re”, e la frase “scacco matto” non indica un re impazzito, ma proviene da shah mat, ossia “re in trappola”. Il gioco non aveva regine ma consiglieri chiamati vizir, solo in seguito viaggiando lungo le rotte arabe e giungendo in Europa assunse le regole e l’aspetto che oggi conosciamo.
Al di là della sua storia, è la sua metafora che continua ad essere attuale. Non un semplice passatempo, ma una rappresentazione in miniatura della guerra. Ogni figura ha il suo ruolo ed ogni mossa comporta un costo. Un gioco di strategia in cui anche i re e le regine cadono, spinti da mani lontane che muovono la partita inseguendo interessi più ampi.
Oggi come ieri, quella scacchiera ha confini reali, tracciati tra territori in lotta e alleanze precarie. Le attuali instabilità geopolitiche seguono schemi già visti: leader che sul campo sembrano decidere le mosse, ma che a ben vedere sono anch’essi pedine di un gioco più grande. Cambiano i protagonisti ma mai chi ne paga il prezzo, i civili.
Gli Stati Uniti, spesso descritti come i grandi registi delle crisi globali, alternano il ruolo di giocatori diretti, come dimostrano i recenti attacchi contro obiettivi legati all’Iran, a quello di strateghi a distanza, manovrando accordi o fornendo armi.
La Russia in Ucraina, la Cina nel Pacifico, gli USA con Israele in Medio Oriente: ogni potenza recita la sua parte in un copione già visto. Ma neppure loro sono immuni da pressioni interne, limiti economici o vincoli internazionali. Anche i burattinai hanno fili che li tirano.
Non è più solo una questione di ideologie, religioni o confini. È un sistema che si autoalimenta: escalation, tregue temporanee, nuove escalation. Un ciclo che sembra avere una sola costante: chi perde davvero non siede mai al tavolo delle decisioni.
Forse la vera domanda non è più chi vincerà. Ma quanto a lungo accetteremo di restare pedine su una scacchiera che nessuno di noi ha scelto.