
Se si volesse paragonare Marceline Desbordes-Valmore a un fiore, sarebbe senz’altro una rosa: una splendida rosa fatta di tanti petali e altrettante spine (per usare un’immagine cara a Baudelaire), simbolo assai ricorrente anche nella produzione letteraria della poetessa francese.
Una produzione letteraria che il poeta Paul Verlaine ha definito di “genio” e di “talento”, tanto da includerla, come unica donna, nella sua celebre raccolta Poètes maudits del 1884, accanto a giganti come Arthur Rimbaud, Tristan Corbière e Stéphane Mallarmé.
Una scelta che assume un valore ancora più significativo se si considera il contesto del Sette-Ottocento, quando alle donne era raramente accettata l’espressione libera mediante l’arte e la scrittura.

Nata a Douai, nel nord della Francia, nel giugno 1786, al confine con il Belgio, la vita di Marceline fu segnata sin dall’infanzia dalla povertà e dal dolore. Una miseria aggravata dalla decisione del padre che rifiutò, per contrasti religiosi, una modesta eredità lasciata dai prozii. Costretta a guadagnarsi da vivere, Marceline iniziò presto a esibirsi come attrice, ballerina e chanteuse, spostandosi in varie parti del Paese, di città in città.
Fu così che, ancora giovanissima e con qualche risparmio, riuscì a partire con sua madre alla volta della Guadalupa, dove viveva un cugino: utile aggancio in vista di un nuovo lavoro. Ma le speranze di un futuro migliore si infransero presto: l’isola era allora sconvolta e devastata dai massacri, dagli stupri, dalle violenze e dalle vendette da parte della popolazione “negra” locale, in conflitto contro i coloni francesi. Lo stesso cugino, ragione del viaggio, fu brutalmente ucciso, e poco dopo la madre di Marceline, in maniera del tutto inaspettata, morì di febbre gialla.
Sola, spaventata e in balia degli eventi, Marceline riuscì infine a rientrare in Francia grazie all’aiuto di alcuni conoscenti, imbarcandosi su una nave mercantile dove subirà, per via della sua bellezza e della sua gioventù, tentativi di molestie da parte del vecchio capitano: alcolista e irrispettoso, che per dispetto, in seguito ai ripetuti rifiuti, confischerà tutto il suo bagaglio all’arrivo a Dunkerque. Un ritorno amaro, quello di Marceline, che le lasciò cicatrici profonde e alimentò la vena dolorosa, malinconica e intensamente lirica della sua poesia, quest’ultima ammirata persino da Hugo, Balzac, Dumas e Saint-Beuve che la definirà “sorella in poesia”.
La sua vita, come quella di ogni poeta maledetto, fu oscura e tormentata, ma al tempo stesso eroica e quasi leggendaria. Celebre l’episodio in cui, sorpresa da una tempesta in mare, chiese ai marinai di legarla all’albero della nave (come Ulisse per resistere al canto delle sirene), suscitando lo stupore e l’ammirazione dell’intera ciurma per il suo atto di coraggio. Il mare, d’altronde, rimase sempre per lei un elemento fondante e simbolico: confine e rottura tra bene e male, passato e futuro, equilibrio e follia.
Follia artistica, la sua, innata e necessaria, che in età adulta le permise di recitare nei più importanti teatri francesi, fra cui l’Opéra Comique, al fianco delle grandi attrici dell’epoca. Nel 1815, recitò perfino davanti allo zar di Russia Alessandro I, ottenendo elogi unanimi dalla stampa e dalla critica per la sua grazia e per la sua straordinaria femminilità.
Eppure, oltre il palcoscenico e dietro il sipario, la sua esistenza fu segnata da angosce e dolori: l’amore non sempre corrisposto per l’attore Olivier e la morte prematura del loro primogenito Marie-Eugène, la condussero a un grave esaurimento nervoso, che riuscì a superare grazie al sostegno delle amiche più care e all’incontro con François-Prosper Lanchantin, in arte “Valmore”, che sposò nel 1817. Dal matrimonio nacquero Junie, Inès, Hippolyte e Ondine, ma tutti i figli – ad eccezione di Hippolyte – morirono prima della madre, accrescendo la sua sofferenza e consacrandola definitivamente come una “poetessa maledetta”, sia per lo stile poetico, romantico e ombroso, sia per le vicende drammatiche legate alla sua intera esistenza.
Marceline perì di cancro nel 1859, dopo atroci dolori e una disperata richiesta di morire. Nei suoi ultimi anni, in seguito all’abbandono del teatro, si dedicò a componimenti delicati, spesso rivolti ai bambini, ma sempre intrisi di quella voce dolente e sincera che ne fece una delle voci liriche più autentiche e commoventi del suo secolo.
Tra le sue raccolte poetiche più importanti vanno ricordate Élégies et Poésies nouvelles (1825), Poésies (1830), Les Pleurs (1833), Pauvres Fleurs (1839), Bouquets et prières (1843) e, pubblicata postuma nel 1860, a cura di Gustave Révilliod, Poésies inédites.
Le rose di Saadi
Stamattina ho voluto portarti delle rose;
ne avevo colte tante, messe nel mio grembo,
che i nodi troppo stretti non sono riusciti a contenerle.
I nodi si son sciolti: le rose volate via
nel vento, verso il mare sono tutte sparite.
Hanno seguito l’acqua per non tornare più.
L’onda si è tinta di rosso, quasi a incendiarsi.
Questa sera la mia veste è ancora profumata.
Respira su di me quel fragrante ricordo.
Aprite ai bambini
I bambini sono venuti a chiedervi delle rose,
Bisogna dargliele.
– Ma quei piccoli ingrati distruggono ogni cosa…
– Bisogna perdonarli.
Ogni giorno di primavera è festa, ogni giardino è il loro tavolo:
Che si divertano pure!
Sarebbe bene ricordare, con dolcezza,
D’aver giocato anche noi!
Domani raccoglieremo le rose cadute
tesoro del verde giardino;
questi respiri d’estate non andranno perduti,
profumeranno l’inverno.
Aprite dunque ai bambini che domandano rose:
Bisogna dargliele;
E se l’istinto li spinge a rompere tutte le cose,
Bisogna perdonarli!
Amore, divino vagabondo
Amore, divino vagabondo, che scivoli tra le anime,
Senza vederti coi miei occhi, riconosco le tue fiamme.
Inquiete per i bagliori che ardono nell’aria,
Tutte le pupille erranti sono colme dei tuoi lampi…
È lui! Si salvi chi può! Ecco che arrivano le lacrime!
Non basta amare, l’amore porta con sé le armi.
È il re, è il signore, e per disarmarlo
bisogna piacere all’Amore: non basta amare!